La notte
passò, per me, tra incubi agitati. Era quasi l’alba quando rinunciai a dormire
e decisi di uscire nella Hong Kong quasi del tutto conquistata. Mi ritrovai nel
bel mezzo di una scena tipica di queste situazioni: una cinese sfortunata era
finita assieme al proprio bimbetto di pochi anni in mezzo a un terzetto di
soldati. Per il piccolo non c’era più niente da fare, ma lei non era ancora
stata violentata. Decisi di non stare a guardare, come avevo fatto nello
scenario della presa di Nanchino, e gli imposi di fermarsi, perché il Grande
Impero era superiore a quel tipo di rappresaglie. Mi venne risposto che, se
avevo qualcosa da dire, ce ne poteva essere anche per me. Non sono incline ad
apprezzare quel certo tipo di sarcasmo, per cui in pochi secondi lasciai tutti
e tre morti sul selciato. La donna si rialzò, lacera e ammaccata ma ancora
relativamente incolume, raccolse il corpicino di suo figlio e con un’occhiata
di puro odio verso di me si allontanò.
Restai un attimo interdetta, avrei apprezzato un atteggiamento almeno
un po’ riconoscente… tuttavia compresi che il cadavere che aveva tra le braccia
e il fatto di avermi sentita pronunciare parole in giapponese non le
permettevano di riflettere con obiettività. Ancora una volta ero disgustata dal
comportamento bestiale del nostro esercito, ma c’era una qualsiasi alternativa
migliore?
Rientrai alla base, ed era già ora di fare colazione. Nella stanza
comune c’era un tipo che catturò la mia attenzione per come mi fissava. Gli
parlai nella mente chiedendo chi fosse e cosa voleva, ma nicchiava. Il suo nome
era Kabuto Koji, ed era un capitano. Mi resi conto che era l’attendente del
colonnello Okizawa, per cui forse era per quello che mi teneva d’occhio.
Shirami Sakura, come sempre seminuda, mangiava da sola seduta a un
tavolo. Certo l’aggettivo “socievole” è qualcosa di molto lontano da quella
primadonna. Yokoi comunque era sempre lì a seguirla con lo sguardo, e provò
anche a rivolgerle la parola, venendo come sempre seccamente rimbalzato.
Venimmo convocati nell’ufficio del colonnello Okizawa, dove avremmo
ricevuto la nuova missione. Lungo il tragitto Tori ci mise a parte delle sue
riflessioni su come il nostro sangue fosse un combinazione di molti popoli, e
mi ritrovai ad aprire bocca prima ancora di aver pensato: “E quindi tu a chi ti
senti di appartenere?”
“Sinceramente non saprei”,
rispose, sorridendo.
“Eppure combatti per una
fazione!” rincalzai.
“Io sono fedele al nostro
imperatore, non ai suoi consiglieri.”
“Suppongo che un antropologo non abbia bisogno che arrivi io a
sottolineare come la nostra storia sia costellata di cattivi consiglieri…”
“Sì, è così.”
Nessun commento:
Posta un commento