martedì 23 luglio 2013

La presa di Hong Kong



Okizawa ci spiegò che era previsto che aiutassimo le truppe nipponiche a conquistare l’ultimo baluardo nemico in Hong Kong, un aeroporto che era tenuto da quello che restava della quinta e settima divisione di fanteria Alleate e dai prodigi canadesi di cui ci aveva già accennato. Si trattava di un mago pellerossa, di un piromante, di una donna capace di influenzare i campi magnetici, di un colosso simile a Tori ma coperto di peli che ricordava uno yeti, e di una mutaforma che poteva prendere le sembianze di qualsiasi animale. Per rafforzare le nostre fila era stato chiamato Shirane Hayao, un prodigio capace di volare.



Decidemmo di farci teletrasportare da Shirami fino alla sommità della torre di controllo, e da lì cominciare a scendere fino a liberare la strada alle nostre truppe. Cogliemmo di sorpresa tre ufficiali, e avemmo subito la meglio su di loro, ma uno di essi precipitò giù dalla vetrata mandando in fumo il nostro effetto sorpresa.

Rendemmo inutilizzabili le apparecchiature radio, per rendere più difficoltoso il passaggio delle istruzioni tra i nostri nemici. Attraverso il vetro infranto vedemmo che i prodigi stavano raggiungendoci in mezzo al campo di decollo, e senza aspettare un istante Yokoi si lanciò giù dalla vetrata in frantumi, frenando la propria caduta piantando una delle sue spade sulla parete della torre. Che esibizionista.

Il piromante avversario, vedendoci, scagliò cinque dardi di fiamma contro la torre, ma intervenne Egami riflettendo il colpo. Purtroppo riuscì a respingere solo un proiettile, incassando gli altri quattro. Tori e Shirane si lanciarono giù dalla finestra, il primo confidando sul fatto che per sé era un saltino da nulla, l’altro utilizzando il potere del volo. Io ed Egami invece passammo più prosaicamente dalle scale. Quando arrivammo in campo, Tori aveva già tramortito con un ceffone la calamita umana. Shirane invece aveva attaccato il mago, ma sulla sua strada si era messo lo yeti, parando col proprio corpo un colpo che probabilmente avrebbe ucciso il suo alleato e stordendo il nostro compagno. Il mago ebbe così il tempo di far alzare una nebbia tanto spessa da oscurare il cielo, e, anche se in quella caligine c’era il rischio di colpire il nostro Shirane, Egami gli scagliò contro il colpo dei cinque draghi. Nella caligine esso arrivò fortunosamente a segno, ferendo solo lievemente il nostro alleato, ma già si sentiva che il mago stava intonando un nuovo sortilegio. Allora mi buttai anch’io tra le ombre, ed estrassi dal fodero la mia Kurodachi. Ancora non sapevo che effetto avrebbe avuto, conoscevo la sua reputazione ma non l’avevo mai utilizzata contro un mago o un custode. Evidentemente qualcun altro la sapeva più lunga, perché il parlottio si spezzò istantaneamente, e il pellerossa esclamò “Io conosco quest’arma!”. “Bravissimo”, pensai mentre seguendo la sua voce mi avvicinavo ancora, ma arrivai al punto di non sapere più da che parte dirigermi. Allora scelsi di colpire in una direzione a caso, e il fato volle che riuscissi a trafiggere il mio nemico. Fece in tempo a lanciare un’ultima magia grazie alla quale tutta la squadra sparì alla nostra vista, con l’eccezione della calamita che venne eliminata definitivamente da Tori prima che la magia la raggiungesse. Egami si vide sfrecciare accanto un uccellino, ma non ebbe il tempo di colpirlo prima che svanisse: doveva essere la mutaforma.

La nebbia si levò, e le truppe nemiche, scoraggiate dall’eliminazione del loro più potente alleato, si arresero.

Una nuova tacca poteva essere incisa.

sabato 13 luglio 2013

La notte più buia



La notte passò, per me, tra incubi agitati. Era quasi l’alba quando rinunciai a dormire e decisi di uscire nella Hong Kong quasi del tutto conquistata. Mi ritrovai nel bel mezzo di una scena tipica di queste situazioni: una cinese sfortunata era finita assieme al proprio bimbetto di pochi anni in mezzo a un terzetto di soldati. Per il piccolo non c’era più niente da fare, ma lei non era ancora stata violentata. Decisi di non stare a guardare, come avevo fatto nello scenario della presa di Nanchino, e gli imposi di fermarsi, perché il Grande Impero era superiore a quel tipo di rappresaglie. Mi venne risposto che, se avevo qualcosa da dire, ce ne poteva essere anche per me. Non sono incline ad apprezzare quel certo tipo di sarcasmo, per cui in pochi secondi lasciai tutti e tre morti sul selciato. La donna si rialzò, lacera e ammaccata ma ancora relativamente incolume, raccolse il corpicino di suo figlio e con un’occhiata di puro odio verso di me si allontanò.

Restai un attimo interdetta, avrei apprezzato un atteggiamento almeno un po’ riconoscente… tuttavia compresi che il cadavere che aveva tra le braccia e il fatto di avermi sentita pronunciare parole in giapponese non le permettevano di riflettere con obiettività. Ancora una volta ero disgustata dal comportamento bestiale del nostro esercito, ma c’era una qualsiasi alternativa migliore?

Rientrai alla base, ed era già ora di fare colazione. Nella stanza comune c’era un tipo che catturò la mia attenzione per come mi fissava. Gli parlai nella mente chiedendo chi fosse e cosa voleva, ma nicchiava. Il suo nome era Kabuto Koji, ed era un capitano. Mi resi conto che era l’attendente del colonnello Okizawa, per cui forse era per quello che mi teneva d’occhio.

Shirami Sakura, come sempre seminuda, mangiava da sola seduta a un tavolo. Certo l’aggettivo “socievole” è qualcosa di molto lontano da quella primadonna. Yokoi comunque era sempre lì a seguirla con lo sguardo, e provò anche a rivolgerle la parola, venendo come sempre seccamente rimbalzato.

Venimmo convocati nell’ufficio del colonnello Okizawa, dove avremmo ricevuto la nuova missione. Lungo il tragitto Tori ci mise a parte delle sue riflessioni su come il nostro sangue fosse un combinazione di molti popoli, e mi ritrovai ad aprire bocca prima ancora di aver pensato: “E quindi tu a chi ti senti di appartenere?”

“Sinceramente non saprei”, rispose, sorridendo.

“Eppure combatti per una fazione!” rincalzai.

“Io sono fedele al nostro imperatore, non ai suoi consiglieri.”

“Suppongo che un antropologo non abbia bisogno che arrivi io a sottolineare come la nostra storia sia costellata di cattivi consiglieri…”

“Sì, è così.”

sabato 15 giugno 2013

Fuga e ritorno!!!




Superammo con facilità i novizi del monastero che in massima parte non riuscirono nemmeno a vederci, ma ad un tratto qualcuno ci richiamò: era un altro religioso, ma non faceva parte della cerchia degli Shaolin. E per un attimo mi sembrò che ce l’avesse con me…
Ignorammo bellamente le sue esortazioni a fermarci e a combattere, raggiungemmo le linee alleate e fummo trasportati a bordo del sommergibile.
Yokoi aveva urgente bisogno di cure più approfondite di quelle che aveva potuto frettolosamente prestargli Egami, e lo lasciammo in infermeria. Uscendo, gli sentimmo chiedere a gran voce del saké.
Finalmente tranquilli, porsi la reliquia a Tori che in quanto antropologo aveva maggior possibilità di capire di cosa si trattasse, e infatti la riconobbe: era stata tagliata da una lama di incredibile precisione, ma era senza dubbio una metà della corona del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, quello che in vita aveva fatto costruire la Grande Muraglia, e poi l’esercito di fanti di terracotta per il proprio mausoleo funebre.
Di lui è risaputo che era ossessionato dall’immortalità, e questo faceva capire come mai il Reich fosse sulle tracce dei suoi oggetti.

Andammo a fare rapporto al colonnello Takemoro, e ci divertimmo a sottolineare con il suo superiore che Yokoi, l’unico ad essere stato ferito, per riprendersi aveva chiesto abbondanti quantitativi di saké. L’abituale compostezza dell’ufficiale davanti a quella plateale insinuazione di mancanza di contegno cedette, lasciando correre un fremito sulle labbra sottili.
Come sono buffe le persone sincere, si aspettano che tutti abbiano le loro stesse inclinazioni!
Sorvolando sui dettagli della condotta del proprio sottoposto, sui quali eravamo certi che avrebbe indagato, si disse molto soddisfatto della buona riuscita della nostra missione e ci confermò che entro due ore gli inviati della Kobayashi Maru, il gruppo dei prodigi di cui faceva parte Shirai, la geisha megalomane, avrebbero ritirato l’oggetto. Infatti non tardarono, ed era proprio lei a guidare il drappello di fanteria scelta che avrebbe portato via il prezioso reperto.
Ebbi il piacere di gustare la sua perplessità quando Tori estrasse la mezza corona dal fundoshi, il cingilombi tradizionale. Tuttavia non si scompose più di tanto, lo prese e mentre si allontanava si rivolse a Yokoi, semisdraiato su una barella e piuttosto brillo. “Sei stato ferito” disse con voce incolore.
“Sì,” rispose lui, “mi hanno ridotto l’armatura a coriandoli, ma ce l’ho fatta anche questa volta. Ti stai forse preoccupando?”
“Non è più affar mio, qualcun’altra ti piangerà.”
Ah, quindi c’è stato del tenero tra il samurai e la geisha. Come nei più prevedibili drammi del teatro kabuki, d’altronde.
Il colonnello ci raccomandò di riposarci e rimetterci in forze, perché eravamo stati avvisati dal servizio segreto che una unità composta da 5 prodigi canadesi avrebbe raggiunto entro poche ore Hong Kong e noi saremmo stati gli unici in grado di opporre una reale resistenza alla loro offensiva.
Io posai lo sguardo su Yokoi, al quale le cui costole incrinate e ferite sanguinanti non avevano impedito di rispondere con voce sonora che era pronto a offrire la vita per l’Imperatore.
E mi chiesi se ero fatta della pasta giusta per passare da una missione all’altra fino a lasciarci la pelle.

giovedì 13 giugno 2013

La reliquia



Il colonnello si congedò, lasciando Yokoi a lisciarsi le penne come un pavone. “Capo squadra. Sono due parole. Vi è abbastanza chiaro?”
Non lo si poteva proprio reggere, infatti Tori sbottò “Sì ma per le azioni militari. Per il resto, non pensare nemmeno che io ti debba alcun tipo di obbedienza!” e io gli feci coro dicendo :“E’ proprio vero che qualcuno potrebbe imparare la potenza di due parole, ‘per’ e ‘favore’. Credo che ci sia qualcosa di simile anche nel Bushido, è esatto?”
Le nostre schermaglie proseguirono fino a destinazione, e a bordo del sommergibile era palpabile l’attesa per il momento in cui avremmo rivisto quella donna. Tori in particolare non faceva mistero di quanto ne fosse stato colpito, ed Egami rispondeva con blanda cortesia. Yokoi non diceva nulla, ma l’atmosfera che si respirava in quello spazio ristretto ricordava un cortile con troppi gatti e la luna piena.
Infine la incontrammo, e in silenzio e con la solita spocchia verso i non militari fece l’uso che era tenuta a fare del proprio potere lasciandoci in un vicolo, nei pressi dei luoghi in cui si combatteva. Era buio pesto, e lei ci indicò una direzione, ma nessuna strada portava di lì. Presto ci rendemmo conto che perdersi era fin troppo facile, e che le truppe nemiche correvano in tutte le direzioni. Seguendo una squadriglia indiana arrivammo a un posto di blocco fornito di mitragliatore, e anche se io avrei preferito cercare di passare inosservata i miei compagni ritennero di non potersi lasciare alle spalle un potenziale nemico. Così Tori assunse la propria forma gigantesca, e abbatté tutte le pareti in carta di riso e i pochi muri che ci separavano dai nemici. Yokoi in un batter di ciglia ne decapitò 8, io e Tori altri 5 a testa, e ad Egami restò l’ultimo. Mi guardai attorno, e vidi i resti di un’altra rivoltante mattanza che avrebbe arricchito il nostro prestigio.
Arrivati al tempio, trovammo due novizi intenti a spazzare i pavimenti, malgrado la battaglia. Chiedemmo di accedere al tempio per pregare, e loro non mostrarono meraviglia. Nel cortile c’era un monaco, raccolto nella posizione del loto, che ci stava aspettando. Si presentò come Egg Sheng, ed emanava un’aura di potenza quasi tangibile, ma Yokoi, che era l’unico a non averla avvertita, gli disse a chiare lettere la ragione per cui eravamo lì e cominciò un surreale braccio di ferro per decidere chi avrebbe attaccato.
Tori si sentiva il più adatto, ma il nostro ineffabile caposquadra riteneva che fosse suo dovere essere il primo e l’unico a combattere. Abbondantemente seccati dalla sua arroganza, ci disponemmo tutti all’attesa. Il monaco era disarmato, ma la sua abilità non faceva sembrare questo fatto un peso difficile da affrontare. Dopo pochi minuti le piastre pettorali dell’armatura di Yokoi erano già ridotte a rottami e lui perdeva sangue dalle ferite al petto, ma il combattimento continuava. Con un colpo che mi ritrovai ad ammirare affondò il proprio wakizashi nella coscia del nemico, ma questi riuscì a dominare il dolore e a disporsi per un nuovo colpo.
Tori non poteva muoversi senza farsi notare, ma io ed Egami approfittammo dell’occasione per sgattaiolare oltre, fino ad arrivare ad una stanza dove, guardato a vista da due monaci, era situato un altare.
Egami fece uso dei suoi talenti, e attraverso la concentrazione addensò l’aria attorno a noi fino a creare una nebbia, impenetrabile a qualsiasi sguardo fuorché il suo.
Questo disorientò i nostri nemici, ma anche me, che sentivo qualcuno avvicinarsi ma non sapevo se era amico o nemico. Allora attraverso la telepatia parlai ad Egami, e compresi di avere davanti un nemico. Posi fine ai suoi passi, e quando la nebbia si alzò vidi che anche il mio compagno aveva riservato le stesse attenzioni all’altro accolito.
Sull’altare era posato un mezzo anello dorato, largo più o meno una spanna. Egami confermò che era carico di potere, e quando l’afferrai me ne resi conto io stessa. Lo infilai nel corpetto, e tornammo verso la sala dove si stava svolgendo il duello.

  Dal diario di E.G.Kogoro (Nadia Baldisseri)

mercoledì 12 giugno 2013

Di nuovo in azione



Poche ore di riposo ci furono concesse a bordo della portaerei Hakagi, e poi il colonnello Takemoro ci convocò al proprio cospetto. Ci presentò Egami Shigeru, un maestro di arti marziali che si sarebbe unito a noi. La nostra nuova missione ci avrebbe fatto spostare sul fronte della campagna di Malesia, e consisteva nel recuperare un oggetto custodito in un monastero Shaolin nella città di Hong Kong. La colonia era ora sotto il controllo congiunto di truppe canadesi e indiane, in quanto gli inglesi si erano ritirati a Singapore.
Io e Tori ci scambiammo uno sguardo, consapevoli di quanto le nostre informazioni errate avessero condizionato la missione precedente, ma mentre io mi stavo limitando a sollevare un sopracciglio e a esibire il mio sorriso obliquo, lui sollevò la questione esplicitamente: “Colonnello Takemoro, quanto possiamo essere sicuri dell’affidabilità delle nostre informazioni?”
Mi aspettavo una reazione aspra, ma rimasi sorpresa: non venne dal colonnello, bensì dal nostro compagno di squadra, il maggiore Yokoi. “Come di permetti di assumere un simile tono inquisitorio verso il nostro colonnello?”
Il sorriso sghembo mi si congelò in faccia. Con uno sforzo consapevole volsi il viso verso di lui, e gli chiesi a bassa voce, ma in modo da essere sentita da tutti: “Ma come, non ti sei reso conto di quanto le nostre informazioni errate abbiano forzato le nostre azioni?”
“Non importa. Erano le informazioni ad essere sbagliate, non abbiamo il diritto di fare delle rimostranze!”
Non potevo credere alle miei orecchie. Ma poi mi resi conto che quello che avevo davanti era a tutti gli effetti un samurai, vincolato in tutto dal Bushido, la sua etica morale. Che la linea di condotta dei guerrieri giapponesi, vecchia di secoli, imponesse di bersi tutto d’un fiato qualsiasi idiozia a patto che fosse stata detta dai propri superiori mi giungeva proprio nuova, ma mi ritrovai a pensare che la sua applicazione dipendesse fin troppo dalla personalità del samurai stesso. Avevo davanti una persona così ottusa? Non me ne ero resa conto. Mmm… Come odio questo tipo di supponenza!
La discussione si sarebbe probabilmente protratta se non fosse intervenuto il colonnello stesso, troncando le rimostranze seccamente: “Le vostre informazioni nell’ultima missione erano sbagliate, questo è stato riconosciuto e discusso in altra sede. Tuttavia a sostegno dell’attendibilità di queste informazioni abbiamo anche l’avallo dell’Ahnenerbe, il dipartimento che studia l’eredità ancestrale e mistica del nostro alleato, il Reich.” Tacque un istante, poi riprese: “Raggiungerete l’arcipelago a bordo di un nostro sommergibile, e da lì verrete teletrasportati sul suolo dell’isola da Shirai Sakura, che avete già avuto modo di conoscere.”
Ancora quella geisha seminuda. Ma bene. Mascherai la contrattura alla mascella facendo una domanda: “E una volta raggiunto questo monastero, come riconosceremo la reliquia?”
Il colonnello indicò il nuovo arrivato: “Qui entra in campo Egami. Tra le sue caratteristiche c’è la capacità di riconoscere quel tipo di oggetti per l’aura che emanano.”
Quindi non sapevamo nulla delle caratteristiche dell’oggetto che eravamo mandati a recuperare. Sempre meglio! E se fosse stato troppo pesante per essere trasportato anche da Tori, o troppo grande per essere nascosto? Tenni le domande per me, conscia che ognuno avrebbe fatto del suo meglio per portare a termine la missione e che non c’erano reali alternative.
“Vi rammento che per quanto siate dei civili nell’ambito di questa missione il vostro caposquadra sarà ancora una volta il maggiore Yokoi.”
Tori sembrò punto sul vivo su questo argomento: “Signor colonnello, vorrei specificare che seguirò le indicazioni del maggiore per quanto concerne le direttive militari.”
“Esatto, a cosa serve questa precisazione?”
“Oh, volevo essere certo di aver compreso la consegna.”

 Dal diario di E.G.Kogoro (Nadia Baldisseri)

mercoledì 5 giugno 2013

Il nemico dentro...



Tori con pochi pugni ben assestati aveva distrutto i mezzi corazzati, e gli ultimi superstiti atterriti non osavano neppure cercare di scappare. Li interrogammo sull’arma, ma sembrava non sapessero di cosa stavamo parlando. Li uccidemmo tutti, e decollammo con un piccolo aereo civile per cercare di vedere dall’alto gli enormi crateri. Nessun segno.
Sembrava impossibile, ma le nostre informazioni erano davvero sbagliate.
Ci dirigemmo al largo, al rendez-vous con il nostro sommergibile. Ammarammo, e rientrammo alla portaerei acclamati come eroi. Noi non dicevamo una parola, con la scusa che avevamo la consegna del silenzio fino al momento in cui avessimo fatto rapporto al nostro comandante, ma questo non frenava l’esultanza dei soldati che avevano riportato a casa la pelle quasi tutti, onorati da una soverchiante vittoria sul nemico invasore colto completamente alla sprovvista.
Quando fummo al cospetto del grande ammiraglio Yamamoto, in realtà un omino minuto e ben oltre la mezz’età, ci venne spiegato che la notizia del bluff del nemico era arrivata alla nostra intelligence, ma solo dopo che eravamo partiti. Quindi avevamo rischiato la pelle per niente. Avevamo ucciso per niente. Avevamo attaccato il nemico partendo da una minaccia falsa.
La dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, che finalmente era stata consegnata, era la sola certezza con cui avremmo dovuto misurarci a partire da quel giorno.
Yamamoto giunse ad affermare che avremmo potuto anche rivelare agli altri soldati che la nostra missione si era risolta in un fallimento, ma ci fece riflettere sul fatto che non avrebbe giovato a nessuno distruggere il loro entusiasmo.
Preso congedo dall’ammiraglio, uscimmo sul ponte della nave, tra i soldati in festa.
Mi ritrovai a parlare con Tori. Condivideva le mie stesse perplessità, ma in modo molto più deciso: riteneva che tutte le meccaniche che avevano portato all’attacco fossero gravemente viziate dalla falsità delle loro premesse, e che questo macchiasse in modo inesorabile il nostro ingresso in guerra col marchio del disonore.
Riteneva anche altamente improbabile che il grande ammiraglio non fosse consapevole di tutta la macchinazione, in quanto le ricognizioni preliminari all’attacco non potevano non essere finite esattamente come la nostra: senza trovare nulla. “Forse Yamamoto ha subito come noi queste macchinazioni, ma non riesco a credere che non se ne fosse reso conto!”
Mi sentivo straordinariamente vicina a quell’uomo, un antropologo costretto alla guerriglia.
E nello stesso tempo sentivo la lontananza di tutti gli altri, semplici soldati ebbri di vittoria e infinitamente miopi riguardo alla profondità dell’abisso sul cui orlo stavamo camminando.

Dal diario di E.G.Kogoro (Nadia Baldisseri)

martedì 4 giugno 2013

Il vento dell'Est soffia feroce...



Ad accoglierci sul ponte della portaerei Akagi venne il comandante Tojo in persona, che ci comunicò che un paio d’ore di tranquillità ci sarebbero state concesse prima di venire teletrasportati oltre da Shirai Sakura, un altro prodigio appartenente al gruppo denominato “Okinami” dotata del dono di controllare le ombre e di muoversi attraverso esse.
Quando la vidi devo ammettere che restai colpita dalla sua presenza scenica: si presentava avvolta dalla vita in giù in broccati scintillanti di fili d’oro nella luce del mattino, con il torso nudo coperto di biacca come i volti delle geishe, con le labbra rosso scuro come fragole mature e le sopracciglia, nere come le pupille, che le tagliavano come lame la fronte.
Accarezzò con un sorriso l’armatura da samurai di Yokoi, ma quando il suo sguardo si posò su Tori e su di me la perfezione della sua fronte candida si spezzò in un’espressione di disprezzo.
Ah, ecco un’altra invasata che disprezza i “cosiddetti civili”.
Infusi nella mia espressione tutto il biasimo che suscitano in me le menti che non sanno vedere le sfumature. Di sicuro non avrà capito, ma non è un problema mio.
Ci teletrasportò a pochi chilometri dall’aeroporto civile nel cui hangar numero 3 era custodita l’arma. Ancora una volta ci stupimmo della mancanza di onore di un popolo pronto a farsi scudo con le vite dei propri civili.
Tori assunse le proprie sembianze di colosso, e mi ritrovai quasi a ridere del nostro terzetto composto da un enorme e nerboruto gigante, un samurai in armatura completa e una donna.
Yokoi tagliò con la sua katana la rete di ferro che delimitava i confini dell’aeroporto. Nessuno era in vista, ma attribuimmo la scarsa vigilanza all’attacco che ormai era in pieno svolgimento e che probabilmente aveva assorbito tutte le attenzioni dei nostri nemici. Tori non poteva passare dal buco, quindi espiantò letteralmente due pali della recinzione, e passò oltre.
Arrivammo all’hangar 3, e lo scoprimmo completamente vuoto.
Nel piccolo ufficio c’erano diversi dossier pieni di fatture e bolle di carico, ma nulla che fosse ascrivibile in alcun modo ad armi o a progetti bellici.
Le nostre informazioni sembravano errate.
Decidemmo di passare all’hangar numero 2, ma in quella sentimmo delle voci sopraggiungere: erano gli yankee, almeno una dozzina, e avevano con se un mezzo corazzato e due carri armati Sherman. Tori ci abbrancò e saltò sul tetto trasportandoci come due fuscelli, e da lì Yokoi saltò con una velocità e un’agilità portentosa da un edificio all’altro, tagliando i tetti di lamiera come se fossero di burro e cercando i nostri obiettivi. Né il capannone 2 né tantomeno l’1 contenevano alcunché, quindi passammo al 4. I nemici si accorsero dei nostri movimenti, e ci attaccarono. Yokoi scese nel bel mezzo di un gruppo di 10 soldati e ne affettò 6 in un battito di ciglia, mentre Tori partì correndo a tutta velocità verso i mezzi corazzati. Io chiamai a me le mie lame mistiche, che obbedienti uscirono con naturalezza dal mio pugno, e saltai tra i quattro guerrieri superstiti. Tre non completarono il loro respiro successivo, mentre il quarto riuscì, prima di darsi alla fuga, a ferirmi alla tempia.

 Dal diario di E.G.Kogoro (Nadia Baldisseri)

lunedì 3 giugno 2013

Tora, Tora, Tora



Era una di quelle convocazioni da cui non si può esimere.
La sera del 6 dicembre 1941 io, Kogoro Elizabeth Glorianna e l’antropologo Tori Riuzo eravamo stati convocati dal colonnello Okizawa, per ricevere degli ordini ai quali, pur non essendo che semplici civili, dovevamo obbedire alla lettera. Assieme all’ufficiale Yokoi Shoichi ci saremmo dovuti introdurre nella base americana di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, per distruggere il prototipo di una nuova arma creata dagli yankee: un cannone dalla foggia ai limiti della fantascienza, ma delle cui prestazioni avevamo potuto vedere alcune prove fotografiche recuperate dal D.I.D., il nostro servizio segreto: crateri del diametro di almeno cinquecento metri e profonde come laghi. La cosa più inquietante è che la portata di quella nuova arma avrebbe permesso agli Stati Uniti di colpire attraversando 1.200 chilometri di oceano Pacifico, quindi l’incolumità del Giappone stesso era a rischio. Recuperare i piani per poter ricreare quell’arma sul nostro territorio era la nostra missione secondaria.
Eravamo stati scelti, come ci stava spiegando il colonnello, per alcune caratteristiche particolari: Yokoi è un prodigio naturale dotato di una velocità sovrumana, Tori è il Custode di una cinta appartenuta a un condottiero cinese che lo trasmuta in un colosso di quasi tre metri di altezza e dall’umore mai del tutto buono, mentre io, grazie al discutibile dono impiantatomi in laboratorio in seguito alle macchinazioni di mio padre, sono una telepate e una guerriera in grado di evocare lame mistiche. Io avrei preferito servire il mio paese portando solo Kurodachi, la lama di famiglia che colpisce con particolare ferocia i Custodi e i Mistici, purtroppo però questo non poteva bastare al mio ambizioso genitore… Ma è inutile rivangare il passato.
Nessuna obiezione era prevista né immaginabile, davanti alla chiamata del nostro splendente Imperatore. La solita piccola smorfia sul mio viso era la sola manifestazione del mio stato d’animo, e si è solo un po’ approfondita quando ho compreso che la nostra operazione sarebbe coincisa con un attacco aereo a sorpresa alla base degli yankee. “Ma non è stata dichiarata guerra agli Stati Uniti!” ho esclamato.
“E non sarà dichiarata prima dell’attacco.” Confermò il colonnello.
Ormai nemmeno più il Dai Nippon Teikoku, l’Impero del Grande Giappone, manteneva alto l’onore delle tradizioni dei nostri avi. Ancora una volta mi ritrovai a riflettere sulla mia natura di mezzosangue, figlia di un diplomatico nipponico corrotto dalla propria ambizione e di una giovenca yankee, mai conosciuta. Quale delle mie due nature era più repellente? Quale dei due popoli? Zittii ancora una volta quella mia flebile protesta mentale, certa che tutto il mondo è paese e che nessuna nazione merita più degli altri di essere obbedita. Ci chiamano prodigi per solleticare il nostro ego, in realtà siamo solo schiavi particolarmente utili.
Decollammo alla volta delle Hawaii. Dopo un’intera notte di volo pigiati come sardine atterrammo su una delle portaerei che avrebbe trasportato i nostri aerei all’attacco. Immaginare che fosse stata creata un’arma in grado di attraversare una simile distanza mi inquietava: meritava senza dubbio di essere distrutta, e riguardo al recupero dei piani… beh, forse non sarebbero mai stati recuperati. Sono così tante le cose che possono andare storte in una simile missione.

Dal diario di E.G.Kogoro (Nadia Baldisseri)