Tori con pochi pugni ben assestati aveva distrutto i mezzi
corazzati, e gli ultimi superstiti atterriti non osavano neppure cercare di
scappare. Li interrogammo sull’arma, ma sembrava non sapessero di cosa stavamo
parlando. Li uccidemmo tutti, e decollammo con un piccolo aereo civile per
cercare di vedere dall’alto gli enormi crateri. Nessun segno.
Ci dirigemmo al largo, al rendez-vous con il nostro
sommergibile. Ammarammo, e rientrammo alla portaerei acclamati come eroi. Noi
non dicevamo una parola, con la scusa che avevamo la consegna del silenzio fino
al momento in cui avessimo fatto rapporto al nostro comandante, ma questo non
frenava l’esultanza dei soldati che avevano riportato a casa la pelle quasi
tutti, onorati da una soverchiante vittoria sul nemico invasore colto
completamente alla sprovvista.
Quando fummo al cospetto del grande ammiraglio Yamamoto, in
realtà un omino minuto e ben oltre la mezz’età, ci venne spiegato che la
notizia del bluff del nemico era arrivata alla nostra intelligence, ma solo dopo
che eravamo partiti. Quindi avevamo rischiato la pelle per niente. Avevamo
ucciso per niente. Avevamo attaccato il nemico partendo da una minaccia falsa.
La dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, che finalmente
era stata consegnata, era la sola certezza con cui avremmo dovuto misurarci a
partire da quel giorno.
Yamamoto giunse ad affermare che avremmo potuto anche rivelare
agli altri soldati che la nostra missione si era risolta in un fallimento, ma
ci fece riflettere sul fatto che non avrebbe giovato a nessuno distruggere il
loro entusiasmo.
Preso congedo dall’ammiraglio, uscimmo sul ponte della nave,
tra i soldati in festa.
Mi ritrovai a parlare con Tori. Condivideva le mie stesse
perplessità, ma in modo molto più deciso: riteneva che tutte le meccaniche che
avevano portato all’attacco fossero gravemente viziate dalla falsità delle loro
premesse, e che questo macchiasse in modo inesorabile il nostro ingresso in
guerra col marchio del disonore.
Riteneva anche altamente improbabile che il grande ammiraglio
non fosse consapevole di tutta la macchinazione, in quanto le ricognizioni
preliminari all’attacco non potevano non essere finite esattamente come la
nostra: senza trovare nulla. “Forse Yamamoto ha subito come noi queste
macchinazioni, ma non riesco a credere che non se ne fosse reso conto!”
Mi sentivo straordinariamente vicina a quell’uomo, un
antropologo costretto alla guerriglia.
E nello stesso tempo sentivo la lontananza di tutti gli
altri, semplici soldati ebbri di vittoria e infinitamente miopi riguardo alla
profondità dell’abisso sul cui orlo stavamo camminando.
Dal diario di E.G.Kogoro (Nadia Baldisseri)