martedì 23 luglio 2013

La presa di Hong Kong



Okizawa ci spiegò che era previsto che aiutassimo le truppe nipponiche a conquistare l’ultimo baluardo nemico in Hong Kong, un aeroporto che era tenuto da quello che restava della quinta e settima divisione di fanteria Alleate e dai prodigi canadesi di cui ci aveva già accennato. Si trattava di un mago pellerossa, di un piromante, di una donna capace di influenzare i campi magnetici, di un colosso simile a Tori ma coperto di peli che ricordava uno yeti, e di una mutaforma che poteva prendere le sembianze di qualsiasi animale. Per rafforzare le nostre fila era stato chiamato Shirane Hayao, un prodigio capace di volare.



Decidemmo di farci teletrasportare da Shirami fino alla sommità della torre di controllo, e da lì cominciare a scendere fino a liberare la strada alle nostre truppe. Cogliemmo di sorpresa tre ufficiali, e avemmo subito la meglio su di loro, ma uno di essi precipitò giù dalla vetrata mandando in fumo il nostro effetto sorpresa.

Rendemmo inutilizzabili le apparecchiature radio, per rendere più difficoltoso il passaggio delle istruzioni tra i nostri nemici. Attraverso il vetro infranto vedemmo che i prodigi stavano raggiungendoci in mezzo al campo di decollo, e senza aspettare un istante Yokoi si lanciò giù dalla vetrata in frantumi, frenando la propria caduta piantando una delle sue spade sulla parete della torre. Che esibizionista.

Il piromante avversario, vedendoci, scagliò cinque dardi di fiamma contro la torre, ma intervenne Egami riflettendo il colpo. Purtroppo riuscì a respingere solo un proiettile, incassando gli altri quattro. Tori e Shirane si lanciarono giù dalla finestra, il primo confidando sul fatto che per sé era un saltino da nulla, l’altro utilizzando il potere del volo. Io ed Egami invece passammo più prosaicamente dalle scale. Quando arrivammo in campo, Tori aveva già tramortito con un ceffone la calamita umana. Shirane invece aveva attaccato il mago, ma sulla sua strada si era messo lo yeti, parando col proprio corpo un colpo che probabilmente avrebbe ucciso il suo alleato e stordendo il nostro compagno. Il mago ebbe così il tempo di far alzare una nebbia tanto spessa da oscurare il cielo, e, anche se in quella caligine c’era il rischio di colpire il nostro Shirane, Egami gli scagliò contro il colpo dei cinque draghi. Nella caligine esso arrivò fortunosamente a segno, ferendo solo lievemente il nostro alleato, ma già si sentiva che il mago stava intonando un nuovo sortilegio. Allora mi buttai anch’io tra le ombre, ed estrassi dal fodero la mia Kurodachi. Ancora non sapevo che effetto avrebbe avuto, conoscevo la sua reputazione ma non l’avevo mai utilizzata contro un mago o un custode. Evidentemente qualcun altro la sapeva più lunga, perché il parlottio si spezzò istantaneamente, e il pellerossa esclamò “Io conosco quest’arma!”. “Bravissimo”, pensai mentre seguendo la sua voce mi avvicinavo ancora, ma arrivai al punto di non sapere più da che parte dirigermi. Allora scelsi di colpire in una direzione a caso, e il fato volle che riuscissi a trafiggere il mio nemico. Fece in tempo a lanciare un’ultima magia grazie alla quale tutta la squadra sparì alla nostra vista, con l’eccezione della calamita che venne eliminata definitivamente da Tori prima che la magia la raggiungesse. Egami si vide sfrecciare accanto un uccellino, ma non ebbe il tempo di colpirlo prima che svanisse: doveva essere la mutaforma.

La nebbia si levò, e le truppe nemiche, scoraggiate dall’eliminazione del loro più potente alleato, si arresero.

Una nuova tacca poteva essere incisa.

sabato 13 luglio 2013

La notte più buia



La notte passò, per me, tra incubi agitati. Era quasi l’alba quando rinunciai a dormire e decisi di uscire nella Hong Kong quasi del tutto conquistata. Mi ritrovai nel bel mezzo di una scena tipica di queste situazioni: una cinese sfortunata era finita assieme al proprio bimbetto di pochi anni in mezzo a un terzetto di soldati. Per il piccolo non c’era più niente da fare, ma lei non era ancora stata violentata. Decisi di non stare a guardare, come avevo fatto nello scenario della presa di Nanchino, e gli imposi di fermarsi, perché il Grande Impero era superiore a quel tipo di rappresaglie. Mi venne risposto che, se avevo qualcosa da dire, ce ne poteva essere anche per me. Non sono incline ad apprezzare quel certo tipo di sarcasmo, per cui in pochi secondi lasciai tutti e tre morti sul selciato. La donna si rialzò, lacera e ammaccata ma ancora relativamente incolume, raccolse il corpicino di suo figlio e con un’occhiata di puro odio verso di me si allontanò.

Restai un attimo interdetta, avrei apprezzato un atteggiamento almeno un po’ riconoscente… tuttavia compresi che il cadavere che aveva tra le braccia e il fatto di avermi sentita pronunciare parole in giapponese non le permettevano di riflettere con obiettività. Ancora una volta ero disgustata dal comportamento bestiale del nostro esercito, ma c’era una qualsiasi alternativa migliore?

Rientrai alla base, ed era già ora di fare colazione. Nella stanza comune c’era un tipo che catturò la mia attenzione per come mi fissava. Gli parlai nella mente chiedendo chi fosse e cosa voleva, ma nicchiava. Il suo nome era Kabuto Koji, ed era un capitano. Mi resi conto che era l’attendente del colonnello Okizawa, per cui forse era per quello che mi teneva d’occhio.

Shirami Sakura, come sempre seminuda, mangiava da sola seduta a un tavolo. Certo l’aggettivo “socievole” è qualcosa di molto lontano da quella primadonna. Yokoi comunque era sempre lì a seguirla con lo sguardo, e provò anche a rivolgerle la parola, venendo come sempre seccamente rimbalzato.

Venimmo convocati nell’ufficio del colonnello Okizawa, dove avremmo ricevuto la nuova missione. Lungo il tragitto Tori ci mise a parte delle sue riflessioni su come il nostro sangue fosse un combinazione di molti popoli, e mi ritrovai ad aprire bocca prima ancora di aver pensato: “E quindi tu a chi ti senti di appartenere?”

“Sinceramente non saprei”, rispose, sorridendo.

“Eppure combatti per una fazione!” rincalzai.

“Io sono fedele al nostro imperatore, non ai suoi consiglieri.”

“Suppongo che un antropologo non abbia bisogno che arrivi io a sottolineare come la nostra storia sia costellata di cattivi consiglieri…”

“Sì, è così.”

sabato 15 giugno 2013

Fuga e ritorno!!!




Superammo con facilità i novizi del monastero che in massima parte non riuscirono nemmeno a vederci, ma ad un tratto qualcuno ci richiamò: era un altro religioso, ma non faceva parte della cerchia degli Shaolin. E per un attimo mi sembrò che ce l’avesse con me…
Ignorammo bellamente le sue esortazioni a fermarci e a combattere, raggiungemmo le linee alleate e fummo trasportati a bordo del sommergibile.
Yokoi aveva urgente bisogno di cure più approfondite di quelle che aveva potuto frettolosamente prestargli Egami, e lo lasciammo in infermeria. Uscendo, gli sentimmo chiedere a gran voce del saké.
Finalmente tranquilli, porsi la reliquia a Tori che in quanto antropologo aveva maggior possibilità di capire di cosa si trattasse, e infatti la riconobbe: era stata tagliata da una lama di incredibile precisione, ma era senza dubbio una metà della corona del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, quello che in vita aveva fatto costruire la Grande Muraglia, e poi l’esercito di fanti di terracotta per il proprio mausoleo funebre.
Di lui è risaputo che era ossessionato dall’immortalità, e questo faceva capire come mai il Reich fosse sulle tracce dei suoi oggetti.

Andammo a fare rapporto al colonnello Takemoro, e ci divertimmo a sottolineare con il suo superiore che Yokoi, l’unico ad essere stato ferito, per riprendersi aveva chiesto abbondanti quantitativi di saké. L’abituale compostezza dell’ufficiale davanti a quella plateale insinuazione di mancanza di contegno cedette, lasciando correre un fremito sulle labbra sottili.
Come sono buffe le persone sincere, si aspettano che tutti abbiano le loro stesse inclinazioni!
Sorvolando sui dettagli della condotta del proprio sottoposto, sui quali eravamo certi che avrebbe indagato, si disse molto soddisfatto della buona riuscita della nostra missione e ci confermò che entro due ore gli inviati della Kobayashi Maru, il gruppo dei prodigi di cui faceva parte Shirai, la geisha megalomane, avrebbero ritirato l’oggetto. Infatti non tardarono, ed era proprio lei a guidare il drappello di fanteria scelta che avrebbe portato via il prezioso reperto.
Ebbi il piacere di gustare la sua perplessità quando Tori estrasse la mezza corona dal fundoshi, il cingilombi tradizionale. Tuttavia non si scompose più di tanto, lo prese e mentre si allontanava si rivolse a Yokoi, semisdraiato su una barella e piuttosto brillo. “Sei stato ferito” disse con voce incolore.
“Sì,” rispose lui, “mi hanno ridotto l’armatura a coriandoli, ma ce l’ho fatta anche questa volta. Ti stai forse preoccupando?”
“Non è più affar mio, qualcun’altra ti piangerà.”
Ah, quindi c’è stato del tenero tra il samurai e la geisha. Come nei più prevedibili drammi del teatro kabuki, d’altronde.
Il colonnello ci raccomandò di riposarci e rimetterci in forze, perché eravamo stati avvisati dal servizio segreto che una unità composta da 5 prodigi canadesi avrebbe raggiunto entro poche ore Hong Kong e noi saremmo stati gli unici in grado di opporre una reale resistenza alla loro offensiva.
Io posai lo sguardo su Yokoi, al quale le cui costole incrinate e ferite sanguinanti non avevano impedito di rispondere con voce sonora che era pronto a offrire la vita per l’Imperatore.
E mi chiesi se ero fatta della pasta giusta per passare da una missione all’altra fino a lasciarci la pelle.

giovedì 13 giugno 2013

La reliquia



Il colonnello si congedò, lasciando Yokoi a lisciarsi le penne come un pavone. “Capo squadra. Sono due parole. Vi è abbastanza chiaro?”
Non lo si poteva proprio reggere, infatti Tori sbottò “Sì ma per le azioni militari. Per il resto, non pensare nemmeno che io ti debba alcun tipo di obbedienza!” e io gli feci coro dicendo :“E’ proprio vero che qualcuno potrebbe imparare la potenza di due parole, ‘per’ e ‘favore’. Credo che ci sia qualcosa di simile anche nel Bushido, è esatto?”
Le nostre schermaglie proseguirono fino a destinazione, e a bordo del sommergibile era palpabile l’attesa per il momento in cui avremmo rivisto quella donna. Tori in particolare non faceva mistero di quanto ne fosse stato colpito, ed Egami rispondeva con blanda cortesia. Yokoi non diceva nulla, ma l’atmosfera che si respirava in quello spazio ristretto ricordava un cortile con troppi gatti e la luna piena.
Infine la incontrammo, e in silenzio e con la solita spocchia verso i non militari fece l’uso che era tenuta a fare del proprio potere lasciandoci in un vicolo, nei pressi dei luoghi in cui si combatteva. Era buio pesto, e lei ci indicò una direzione, ma nessuna strada portava di lì. Presto ci rendemmo conto che perdersi era fin troppo facile, e che le truppe nemiche correvano in tutte le direzioni. Seguendo una squadriglia indiana arrivammo a un posto di blocco fornito di mitragliatore, e anche se io avrei preferito cercare di passare inosservata i miei compagni ritennero di non potersi lasciare alle spalle un potenziale nemico. Così Tori assunse la propria forma gigantesca, e abbatté tutte le pareti in carta di riso e i pochi muri che ci separavano dai nemici. Yokoi in un batter di ciglia ne decapitò 8, io e Tori altri 5 a testa, e ad Egami restò l’ultimo. Mi guardai attorno, e vidi i resti di un’altra rivoltante mattanza che avrebbe arricchito il nostro prestigio.
Arrivati al tempio, trovammo due novizi intenti a spazzare i pavimenti, malgrado la battaglia. Chiedemmo di accedere al tempio per pregare, e loro non mostrarono meraviglia. Nel cortile c’era un monaco, raccolto nella posizione del loto, che ci stava aspettando. Si presentò come Egg Sheng, ed emanava un’aura di potenza quasi tangibile, ma Yokoi, che era l’unico a non averla avvertita, gli disse a chiare lettere la ragione per cui eravamo lì e cominciò un surreale braccio di ferro per decidere chi avrebbe attaccato.
Tori si sentiva il più adatto, ma il nostro ineffabile caposquadra riteneva che fosse suo dovere essere il primo e l’unico a combattere. Abbondantemente seccati dalla sua arroganza, ci disponemmo tutti all’attesa. Il monaco era disarmato, ma la sua abilità non faceva sembrare questo fatto un peso difficile da affrontare. Dopo pochi minuti le piastre pettorali dell’armatura di Yokoi erano già ridotte a rottami e lui perdeva sangue dalle ferite al petto, ma il combattimento continuava. Con un colpo che mi ritrovai ad ammirare affondò il proprio wakizashi nella coscia del nemico, ma questi riuscì a dominare il dolore e a disporsi per un nuovo colpo.
Tori non poteva muoversi senza farsi notare, ma io ed Egami approfittammo dell’occasione per sgattaiolare oltre, fino ad arrivare ad una stanza dove, guardato a vista da due monaci, era situato un altare.
Egami fece uso dei suoi talenti, e attraverso la concentrazione addensò l’aria attorno a noi fino a creare una nebbia, impenetrabile a qualsiasi sguardo fuorché il suo.
Questo disorientò i nostri nemici, ma anche me, che sentivo qualcuno avvicinarsi ma non sapevo se era amico o nemico. Allora attraverso la telepatia parlai ad Egami, e compresi di avere davanti un nemico. Posi fine ai suoi passi, e quando la nebbia si alzò vidi che anche il mio compagno aveva riservato le stesse attenzioni all’altro accolito.
Sull’altare era posato un mezzo anello dorato, largo più o meno una spanna. Egami confermò che era carico di potere, e quando l’afferrai me ne resi conto io stessa. Lo infilai nel corpetto, e tornammo verso la sala dove si stava svolgendo il duello.

  Dal diario di E.G.Kogoro (Nadia Baldisseri)